Marina De Stasio

Si direbbe che l’arte contemporanea sia alla ricerca di nuovi alfabeti, che nessuno di quelli esistenti sia adeguato per esprimere in modo diretto la parola, o il silenzio, della nostra epoca; le saldature in stagno di queste composizioni di Mario De Leo comunicano appunto la sensazione immediata di essere una scrittura; interpunzione o alfabeto morse, o forse segni su un rigo musicale, note di una musica sconosciuta. Punti luccicanti, sempre proiettati in una tensione verticale, si dispongono in un alternarsi di ritmi e pause in cui il silenzio non è meno importante del suono.

Il cono affusolato che si dispone variamente nello spazio dell’opera ha per l’artista il ruolo di una sonda volta a captare suoni e parole che forse vagano nel cosmo; orientato a volte verso il profondo, a dare tridimensionalità a una superficie altrimenti piana, ingentilito da colori raffinati o addirittura preziosi, il cono, con la sua eleganza, ben si armonizza con i materiali poveri e tecnologici: con lo stagno e con il cartone strappato, quasi scavato, a rivelare strati sottostanti di materia ruvida. Anche in questo ciclo dei Punti Ascensionali, tornano, a volte solo per cenni, i circuiti stampati, da sempre fonte inesauribile di ispirazione per il lavoro dell’artista, oggetti di una modernità che forse è già antica, già affonda nel passato dell’archeologia industriale.

Sembra che l’artista voglia trovare un punto di conciliazione fra tradizione e avanguardie, che nel suo lavoro attui una doppia azione di recupero: salvare elementi della pittura antica, segreti di una sapienza pittorica che rischia oggi di essere dimenticata, e ridare vita e senso ai materiali prodotti e poi scartati dalla civiltà industriale. Nella loro essenzialità, queste composizioni sono sintesi di esigenze apparentemente opposte: fusione di poesia e tecnica, ricchezza e povertà, di sonorità e silenzio; la luminosità dell’oro, dell’azzurro e del rosa, la purezza soffice del bianco, che evoca una spazialità senza limiti, s’incontrano con materiali grezzi, con oggetti creati con intento utilitaristico e non certo decorativo. Diverse componenti confluiscono nel discorso artistico di De Leo, nella sua pittura che partecipa anche della natura del rilievo: alcune legate alle sue origini pugliesi – la spiritualità bizantina e il rigore teutonico, il senso decorativo che in questo periodo spesso caratterizza l’arte dell’Italia meridionale –, altre collegate alla sua formazione culturale, che è maturata nell’ambito dell’arte informale; da qui viene il lavoro costante sul segno e la materia, e in particolare l’amore per l’opera di Lucio Fontana, indagata e rivisitata nei suoi aspetti più significativi.

I circuiti, oggetti di per sé indecifrabili, che però appaiono indubitabilmente costruiti secondo un’assoluta, rigorosa necessità, i percorsi misteriosi e inevitabili dei fili, le scansioni dei punti, sono diventati un tema ricorrente, un leit motiv di questo lavoro, che pure nel tempo ha assunto aspetti anche notevolmente diversi almeno se ci si limita a un’osservazione superficiale. La magia dell’arte, l’alchimia la cui formula rimane tuttora sconosciuta a tutti, anche all’artista stesso che l’opera, nasce dal lavoro di scavo e di assemblaggio, dalla ricerca sui materiali, ma nasce anche con la spontaneità di un gioco, con la naturalezza di chi è capace di incantarsi e di incantare, di chi sa ancora sognare, spaziare in quel cosmo che è la nostra vera casa, in quella solitudine dove il canto può espandersi liberamente, depurando e quasi distillando la materialità del mondo.

 

Marina De Stasio