Flaminio Gualdoni

Mario De Leo, contadino telematico

Da “contadino telematico”, come egli stesso ama definirsi, Mario De Leo affronta, sul versante per ora estremo delle visioni figlie dell’informatica, quanto è accaduto nell’ambito della popizzazione delle immagini.
Alle spalle non è tanto la vicenda storica della Pop art, irruzione della cultura low negli strati autocertificati high: che è una storia passata ormai in giudicato, acquisita, ma anche tutto sommato dalle conseguenze circoscritte.
Ben più interessante, e fruttuoso, è per lui riflettere sulla standardizzazione artificiosa di tutte le immagini, quella sorta di user-friendliness che, dal pc, si è trasferita al nostro stesso sguardo rendendolo intuitivo e veloce con leggerezza, ma allo stesso tempo vorace, bulimico addirittura, in una sorta di deriva senza appello della selettività.
E’stato Jean-Pierre Changeux a raccontarci della “stabilizzazione selettiva delle sinapsi”, secondo la quale tanto più crescono gli stimoli, altrettanto si amplifica la perdita di flessibilità sensoriale: che era un fatto, sì, già empiricamente indicato dai Warhol & Wesselman & Oldenburg, in vario modo, ai nostri occhi; ma ora è, appunto, condizione cognitiva fattasi generale.
Ebbene, quanto tutto ciò riguardi le arti visive è fatto  ben noto, che l‘attuale panorama produttivo ed espositivo ogni giorno ribadisce. Quanto, d’altronde, la questione non sia né cosa né come fare, ma soprattutto perché, pare riguardare una minoranza ormai esigua. I new media offrono tecniche di visione, e in esse pare acquattarsi ciò che continuiamo a indicare come creatività; dove si sia cacciato l’art criticism, ovvero la capacità dell’arte di procedere per mozioni intellettuali forti, o lucide, per straniamenti e messe en abîme eccetera, è questione per ora in parentesi.
Tant’è. Uno come De Leo si è fatto “contadino”, e ha scelto di muovere il suo à rebours verso forme di creatività criticamente stazzata, e verso iconografie infine consapevoli di se stesse, da dati visivi di semplificatissima elementarità.
Esplora la macchina informatica a partire dallo stereotipo visivo delle sue viscere, e la schematizza sino a farne una sorta di motivo decorativo, sul quale far aggettare altre forme di visione anch’essa stereotipa, ma terragna, legata a un sapere antico, radicale del mondo. Siano le forme della pasta alimentare, oppure le shapes d’un femminino ridotto a un proprio codice costitutivo, De Leo forza il livello significativo primo e trova il passo d’una iconografia fastosa, che non è importante comprendere, ma di cui voracemente appropriarsi.
Deliberatamente, egli sceglie di comportarsi verso questo mondo d’immagine come, in altre epoche, il barbaro aniconico di fronte alle figure dell’umano: affascinato meravigliato, assumendo schemi, modi, schegge, senza porsi la questione della ratio genetica, dell’organicità, del perché.
Anche un altro, e troppo dimenticato, protagonista del postpopism, Bruno Zanichelli, aveva in altri tempi compreso la portata di questo sguardo tra barbaricamente meravigliato e infantilmente giocoso nel cuore della macchina d’intelligenza per antonomasia.
I circuiti si erano trasformati per lui in una sorta di puzzle impazzito e fascinoso, raddoppiandosi nell’evocazione delle scatole di montaggio per modellisti.
Non sapeva, forse, come forse non sa De Leo, che questi circuiti li dobbiamo proprio a una generazione di giovanotti capaci di meravigliarsi e giocare. I primi hackers (che erano gli inventori, non i distruttori, del computer), tra fine Cinquanta e primi Sessanta, nelle aule del severo MIT di Boston, passavano armi e bagagli dal club di modellismo ferroviario all’opera sui primi farraginosi IBM: e inventavano la consolle, ma insieme i primi giochi elettronici…
Cosa potrà accadere a nuovi coboldi della macchina come De Leo no è dato di prevedere.
Ciò che fa sperare è il cuore puro, la sana ingenuità e meraviglia, con cui uno come lui smonta mentalmente la macchina e la riduce a proporzioni ripensabili, e giocabili. E’ molto, moltissimo.

Flaminio Gualdoni